Transalpina | 2023 | N. 26

La letteratura italiana del Novecento mostra che si possono individuare le tracce “postume” dei misteri urbani, dei casi di sopravvivenza persino, purché si aguzzi lo sguardo. Da Massimo Bontempelli e Alberto Savinio a Anna Maria Ortese e fino a Roberto Saviano, da Italo Calvino a Paolo Zanotti, da Emilio De Rossignoli a Umberto Eco passando per Gianfranco Manfredi, per scendere man mano verso le creazioni contemporanee del disegnatore Elfo (Giancarlo Ascari) e dell’autrice di fantascienza Nicoletta Vallorani – senza dimenticare lo scrittore che, più di ogni altro, sembra voler far rivivere nella sua opera la grande stagione ottocentesca dei misteri, Dino Buzzati – numerosi sono gli autori e gli artisti che si sono ispirati ai maestri, stranieri e italiani, di questo genere, per scrivere l’epopea dei bassifondi della letteratura contemporanea.

Questo saggio vorrebbe chiarire le ragioni per cui un genere centrale nell’immaginario ottocentesco come il romanzo di misteri urbani scompare all’alba del Novecento senza lasciare praticamente nessuna traccia. La spiegazione più semplice, che rimanda ai cambiamenti sopraggiunti nella visione delle relazioni fra la città, il tessuto sociale e la criminalità, non basta a giustificare un simile sconvolgimento ; bisogna invocare altri fattori, che si collocano a livelli d’analisi diversi, come la moda del formato editoriale breve, che si impone in Francia prima della Grande Guerra, le trasformazioni mediatiche e la riorganizzazione degli architesti seriali imposta da tali trasformazioni, l’avvento delle collane popolari e la ridefinizione del sistema generico nella sua totalità. La dissoluzione dei misteri urbani è strettamente legata a tutte queste profonde modificazioni : il genere è stato dimenticato semplicemente perché non corrisponde più a ciò che noi, oggi, chiamiamo un genere.

Allo scopo di verificare se esistano testi novecenteschi italiani ascrivibili alla tradizione letteraria dei misteri urbani, questo articolo identifica otto tratti dominanti della forma classica (ottocentesca) del genere e quattro configurazioni ricorrenti che esso sembra assumere nel Novecento, prima di esaminare più in dettaglio A che punto è la notte (1979) di Fruttero e Lucentini, che potrebbe forse essere considerato come un romanzo novecentesco di misteri urbani.

L’articolo analizza eredità e analogie che intercorrono fra il genere dei misteri (nelle sue declinazioni ottocentesche e contemporanee) e l’opera di Dino Buzzati e di Italo Calvino. In particolare, si concentra sul tema delle città nascoste all’interno delle città note, sviluppato sia in senso distopico che utopico. In quest’ottica la narrazione si fa svelamento del rovescio della realtà urbana, in cui risiede la negazione della città e insieme la sua essenza vitale. Più specificatamente, tale rivelazione si attua attraverso alcuni topoi ricorrenti, presenti già nei misteri tradizionali : anzitutto implica spesso uno spostamento spaziale (dall’alto al basso) e temporale (dal giorno alla notte) ; inoltre, si articola intorno alle immagini del labirinto, del mostro e del femminile : tutte manifestazioni dell’Altro, in ultima analisi dell’inconscio (individuale e collettivo).

Il saggio analizza tre opere degli anni Ottanta – Concerto per una bambola di Emilio De Rossignoli (1981), Magia rossa di Gianfranco Manfredi (1983) e Il pendolo di Foucault di Umberto Eco (1988) – che hanno in comune l’uso della città di Milano come teatro di violenze, misteri e suggestioni occulte. Rispetto ad altre ambientazioni urbane consacrate dalla tradizione – la Roma spettrale di Giorgio Vigolo e Giuseppe D’Agata, la Torino sulfurea di Giorgio De Maria o di Fruttero e Lucentini –, la Milano del « riflusso » socio-politico presenta specifiche peculiarità, che derivano direttamente dalla sua storia politica e culturale. In particolare, il saggio analizza le modalità in cui la topografia milanese, carica di reminiscenze manzoniane (specialmente della Storia della colonna infame), crea un ponte tra Risorgimento e anni di piombo nel segno del rapporto tra masse e potere.

Tra il 1878 e il 1879, lo scapigliato Paolo Valera pubblica un reportage intitolato Milano sconosciuta, nel quale descrive senza reticenze e nel solco del genere dei misteri urbani il lato oscuro della « capitale morale » d’Italia. Quasi cent’anni più tardi il disegnatore italiano Elfo (Giancarlo Ascari) recupera il nome di Valera per farne un detective del quartiere Ticinese, alle prese con storie bizzarre e misteriose ispirate alla fantascienza e al fumetto underground statunitense. A partire da questa corrispondenza, l’articolo analizza la serie di Elfo dedicata a Paolo Valera come una riscrittura moderna del genere dei misteri, sulla base di consonanze tematiche e strutturali quali l’ambientazione urbana, la connotazione politica, l’influenza della cronaca e le forme di circolazione editoriale.

La letteratura dei misteri urbani è solitamente considerata una fase seminale nella storia del romanzo popolare ma, al contempo, è studiata come una parentesi di successo tutto sommato passeggera. In Italia, con poche eccezioni, tale forma di narrativa viene confinata dalla critica agli anni Cinquanta-Settanta dell’Ottocento, ravvisando in buona parte dei misteri italiani dei prodotti di emulazione provinciali o addirittura fuori tema. Questo articolo identifica invece nei misteri un laboratorio di fervida sperimentazione che, anziché estinguersi, si trasforma in – e si ibrida con – altri generi e sottogeneri. Con tali premesse, si intende mostrare come un romanzo di fantascienza originariamente apparso nel 2002, Eva di Nicoletta Vallorani, presenti una serie di affinità con la letteratura dei misteri urbani che non sono dovute al caso, bensì a un consapevole lavoro sui generi che, da un lato, ne sfrutta le strutture tradizionali e, dall’altro, ne ridisegna ed espande gli obiettivi.

L’articolo analizza la Comoedia, un atto unico in esametri latini scritto all’inizio del XVI secolo dal giurista e scrittore napoletano Girolamo Morlini. La prospettiva qui utilizzata per esaminare la pièce non è letteraria, ma storica. Questo dramma è in effetti una allegoria delle vicissitudini che il regno di Napoli – al centro delle ambizioni di sovrani francesi e iberici – attraversa durante le Guerre d’Italia. Scopo dell’articolo è proporre una possibile chiave di lettura.

Una figura ambivalente, un Virgilio muto e senza calamo, accompagna Daniele Del Giudice nel suo esordio letterario. Roberto (Bobi) Bazlen, scrittore mancato e allo stesso tempo forse il più importante degli introduttori di novità nella letteratura italiana, è un’ombra sfuggevole in ogni capitolo del libro. Quello che invece appare evidente è un sentimento del tempo alterato e alternato tanto da sembrare arbitrario. Ma l’autore è giornalista e saggista da parecchi anni e non dispone casualmente i tasselli del mosaico. I principali due tempi verbali che destabilizzano la lettura − il passato prossimo e il presente indicativo − hanno una funzione precisa e collocazioni eloquenti. L’analisi digitale del testo consegna un diagramma temporale che ne svela la funzione di correlativi formali dei motivi e dei passaggi più importanti del libro. La realtà immateriale ha mutato il tempo, la sensibilità e l’immaginazione : la narrazione è di nuovo possibile, ma solo se riconciliata con la nuova epoca.

L’articolo presenta un primo contributo all’analisi dell’utilizzo del cinema nei processi di nazionalizzazione dei minori durante il Ventennio fascista. Dopo aver delineato le forme del consumo cinematografico in relazione a questo segmento del pubblico, l’autore ricostruisce le modalità attraverso cui il cinema partecipò all’educazione dell’italiano nuovo, facendo riferimento al ruolo di alcune istituzioni e alle pratiche riscontrabili all’interno della scuola e delle organizzazioni giovanili del regime. Infine, a partire dall’analisi delle tracce di ricezione riscontrabili nelle scritture bambine e nella memorialistica, l’articolo delinea una tipologia di documentari e film di finzione proiettati di fronte ai minori, esaminando le risonanze tra le costellazioni valoriali da essi veicolati e i principi educativi su cui il fascismo desiderava forgiare le nuove generazioni.