Testo | 2015 | N. 69

L’articolo di Maria Chiara Tarsi, dal titolo “La poesia di Gaspara Stampa e la tradizione elegiaca volgare”, in cui la studiosa, sulla base dei lavori di Maria Pia Mussini Sacchi e Patricia Phillippy, le quali hanno rintracciato rispettivamente echi della boccacciana “Elegia di Madonna Fiammetta” e delle ovidiane “Heroides” nell’opera della poetessa veneziana, ricostruisce i legami che la allacciarono anche ai testi della tradizione dell’elegia volgare, dimostrando inoltre il livello di educazione di Gaspara Stampa, la quale non può più essere tacciata di peccare di ‘ingenuità’, né di ‘impressionismo sentimentale’. Pur prediligendo la forma chiusa del sonetto e il tema delle pene d’amore, di ascendenza petrarchesca, il suo canzoniere ha piuttosto la configurazione di “epistola in versi”, fin dalla dedica all’amato Collaltino di Collalto, secondo il modello delle “Pistole” di Luca Pulci (Firenze, 1482), verso cui Gaspara-Anassilla si paragona alla Didone virgiliana abbandonata da Collaltino-Enea, emblema del traditore, perfido e fedifrago quant’altri mai, che esaspera la gelosia dell’innamorata.

Giuseppe Polimeni parte dall’assunto secondo il quale nel romanzo manzoniano i nomi propri occupano un posto di particolare rilievo, in quanto testimoni d un luogo, di una storia, di un personaggio, a partire dal nome dello stesso autore dello scartafaccio, o finto manoscritto secentesco, anonimo quindi caratterizzato più che dal nome, inesistente, dall’assenza del medesimo, a cui il Manzoni attribuisce sovente, nel corso della narrazione, la responsabilità riguardo le reticenze proprio sui nomi o sui luoghi in cui si muovono certi personaggi, da don Abbondio a fra Cristoforo a don Rodrigo, nomi che evocano il potere stesso dei nominati, la loro collocazione sociale, come i nomi delle località richiamano una geografia minuziosa e precisa, familiare a chi ne scrive e che diventa tale anche per chi ne legge, a delineare una carta topografica immaginaria ma concreta, come la scrittura, che obbliga a mettere ‘nero su bianco’, come quando l’oste chiede l’identità a Renzo all’osteria della Luna Piena, ed egli si rende conto di quanto ‘i signori’ siano ‘protagonisti della scrittura’ e tanto più della ‘giustizia’, perché i giudici, se possiedono il nome e il cognome di qualcuno, ne possiedono l’essenza stessa. In realtà, alcuni personaggi sono costretti a cambiare identità per mutare vita, come Renzo e Lodovico. Personaggio senza nome per eccellenza è l’innominato, la cui sinistra fama non è affidata quindi al nome, ma dapprima semplicemente a un titolo (il “Conte del Sagrato”) e successivamente si presenta ‘nudo’ di connotazioni di fronte al Cardinale Federigo, mentre al “Nome di Maria” e al nome di Lucia sono affidate le connotazioni salvifiche dei protagonisti.

Natalie Dupré, prendendo le mosse dagli studi di Stefania Lucamante e Risa Sodi, ripercorre le vicende delle due testimoni della deportazione per rimarcare come le loro storie, ed anche in generale quelle delle donne della Shoah, non abbiano suscitato la dovuta attenzione critica, per cercare di porvi rimedio. Diversi sono quindi i libri dedicati dalle due scrittrici alle loro tragiche vicende legate al campo di sterminio, intese sia quali esperienze testimoniali, sia quali necessità di elaborare il lutto, sia quale attualizzazione del dramma vissuto, libri che sono a volte romanzi autobiografici, a volte racconti, a volte diari a posteriori, a volte raccolte di articoli e interventi pubblici, essendo le autrici sempre oscillanti tra la testimonianza, orale e scritta, e la narrativa di finzione, ma anche dichiarandone decisamente la non letterarietà, come nel caso della Tedeschi, ovvero non destinando gli scritti alla pubblicazione se non dopo la morte, come nel caso del “Tagebuch”, il diario dei primi mesi di libertà di Liana Millu.

Il poeta, nato nel 1928 a Bedretto, nel Canton Ticino, quinto di otto figli di una famiglia contadina, che presenta un ricco “cursus honorum”, dialoga intorno alla propria opera in poesia, scritta sia in dialetto, sia in lingua, con numerose traduzioni, come anche quella in prosa, che consiste in racconti, romanzi e testi teatrali, specialmente soffermandosi sulla forma chiusa del sonetto, da lui particolarmente frequentata, sulle ascendenze letterarie, legate soprattutto alla grande tradizione dantesca, sui rapporti con i contemporanei, quali Erba, Anceschi, Sereni e Risi, con la traduzione, come si diceva, tanto da aver trasposto in dialetto alcuni eccelsi autori, quali Catullo, La Fontaine, Manzoni, Dickinson, in realtà ‘veri e propri rifacimenti in un’altra lingua’, come sottolinea Migliorati. Per quel che concerne la poetica di Orelli, egli sostiene, quasi con Leopardi, la ‘radicale negatività del vivere’, sebbene di formazione religiosa, con al tempo stesso una certa allegria al fondo, per contrastare il male radicale, insito nei gangli stessi dell’esistenza.

Miguel Ángel Cuevas, partendo dal sottolineare l’intimo legame tra la scrittura di Consolo e le arti figurative, riscontrabile non soltanto nelle sue opere, ma anche nei libri che ha dedicato esplicitamente a pittori, scultori, fotografi e architetti, protagonisti delle ‘arti sorelle’ della poesia e della letteratura, che nei testi dello scrittore siciliano muovono la pagina, animandola di una vitalità nuova, più feconda. Gli scritti analizzati dallo studioso vanno dal 1966 al 2009 ed egli si sofferma in particolare sulla raccolta “L’ora sospesa”, volume fortemente voluto da Consolo e che egli realizzò nel 2011, a seguito della proposta fattagli dallo stesso Cuevas. Come il medesimo Consolo ha confessato, egli si serviva di pittori per poter scrivere pagine di tipo lirico-narrativo, quindi il volume, che si articola in tre sezioni ed è chiuso da due brevi “Frammenti lirici”, si compone di vari brani artistici, i quali saranno poi utilizzati nei suoi romanzi, quasi fossero ‘prove di scrittura’ vere e proprie.