Otto / Novecento | 2002 | N. 2

Il Leopardi che il saggio ci ripropone (siamo intorno al 1824) è un uomo ormai disilluso e ha davanti a sè due tragiche constatazioni: la comprensione dell’imperfettibilità umana e il suo essere naturalmente destinato all’infelicità. ‘Tutto è male’, dunque, è la prima irreparabile affermazione di un passo dello Zibaldone del 19-22 Aprile 1826, seguita poi dal celeberrimo ‘Entrate in un giardino di piante, d’erbe e di fiori…’ quel giardino è per lui non un luogo ridente di vita, di colori, ma, al contrario, è simbolo della sofferenza umana, della morte, del dolore. Al giardino di padre Francesco Soave, si ispira sicuramente Leopardi che coglie in quel luogo il ‘lento ma inesorabile degradare…il trascolorare … delle cose e del tempo’.

Nonostante l’italiano sia una lingua bella e raffinata e, pur essendo più di sessanta milioni i discendenti di italiani presenti in tutto il mondo, dal punto di vista linguistico essa non ha mai assunto una posizione di prestigio. Oggi, affermare di ‘tener conto’ della lingua italiana, al di fuori dei confini italiani, significa, innanzitutto, attivarsi perchè tale nobile idioma venga promosso oltre il nostro territorio e si possa così parlare di un vero e proprio scambio linguistico.

L’articolo propone uno studio in parallelo tra l’opera di Giacomo Leopardi e quella di Federico Garcia Lorca, il primo poeta della riflessione filosofica, del ‘sedendo e mirando’ che si innalza sui grandi temi esistenziali, il secondo, invece, poeta ‘sanguigno’, spesso espressione di un sentire forte, passionale e carnale che vive e riflette invece ‘una dimensione etico-popolare della poesia’. Eppure, nonostante l’evidente distanza tra i due poeti, secondo il critico, ci sono momenti di spiccata simiglianza, dagli idilli, allo Zibaldone, a molta opera leopardiana.

Il saggio procede con una rassegna di racconti e scritti vari di Goffredo Parise con lo scopo di puntualizzare quelle che sono le caratteristiche ultime del suo scrivere.
Egli è spesso attratto non dai grandi avvenimenti, ma dai fatti che apparirebbero insignificanti e che invece illuminano l’essenza stessa del vivere. Ogni racconto, dunque, sembra muoversi oscillando tra due poli sentimentali, da una parte il desiderio forte e vivo di gustare la bellezza della vita, dall’altra la consapevolezza dell’avvicinarsi della fine, del ‘crepuscolo’ che porta con sé tristezza, solitudine, abbandono.

Si propone una riflessione sul libro del viennese Erwin Ringel, che, pubblicato nel 1986, suscitò un grosso clamore, per l’analisi minuziosa di quell”anima’ austriaca che emergeva malata di una ‘nevrosi’ prepotentemente presente in quella terra. Da questa constatazione iniziale parte, dunque, un excursus attraverso scrittori italiani del Novecento, da Pirandello a Scipio Slataper, che scelsero spesso Vienna come spazio geografico in cui muovere i loro protagonisti.

Ancora una volta protagonista del lungo articolo proposto da Francisco Lopez Ruiz è Pirandello e l’influenza che il grande scrittore siciliano ha avuto sulla cultura messicana. Le tesi pirandelliane sono riprese e interpretate da Antonio Gonzales Caballero, che utilizzandole riesce a creare uno dei più originali ed ‘efficaci metodi di recitazione’ del Novecento. Fondamentale è il perfezionamento delle capacità espressive degli attori che, in questa maniera, riescono ad adattare la loro recitazione alle situazioni più svariate e difficoltose.

Una rilettura dell’avventura di Renzo nell’osteria della ‘Luna Piena’, dopo l’episodio del tumulto di San Martino, è riproposta nel saggio. Il comportamento del ragazzo è dettato, in parte, da uno stato di ebrezza evidente, che lo porta a controllare a fatica movimenti e, soprattutto, parole. Il suo tono si innalza aggressivo, ma, si badi bene, è e rimane un’aggressività solamente verbale e ben giustificata dalle enormi angherie che Renzo ha subito e continua a subire a causa di Don Rodrigo. Alla rabbia si mescolano però in lui malinconia e tristezza.
La descrizione che il Manzoni ci fornisce, riguardo a questi stati d’animo, è estremamente precisa e offre un quadro minuzioso non solo dei pensieri di Renzo, ma al contempo delle sue condizioni fisiche, delle difficoltà che l’ebbrezza gli causa, anche nel compiere i più banali movimenti.

La volontà dell’autore è quella di proporre una continuazione della bibliografia riguardante gli scritti su Delio Tessa, fornendo integrazioni e aggiunte utili all’utente interessato. Ancora una volta viene sottolineata l’enorme importanza linguistica tessiana che conclude una stagione, quella dialettale,che aveva saputo proporsi come valida alternativa al lirismo ermetico e alla prosa neorealista.

Intorno agli anni Quaranta, quando l’artista Gadda doveva fornire ancora le più belle prove del suo originale scrivere, l’uomo Gadda appariva umiliato dalla vita, giunto all’estremo limite, con un atteggiamento spesso duro e acre verso gli uomini e il mondo tutto. Guardandosi dentro, dunque, si rende tragicamente conto del ‘vuoto’ e della ‘nullità’ che lo circondano e, nonostante il successo di pubblico, si sentirà sempre più isolato, arrivando a quella condizione che egli stesso definirà: ‘la solitudine del satiro’.