Narrativa | 2002 | N. 23

In occasione dei trent’anni della morte dello scrittore italiano si pubblicano gli Atti del Colloquio internazionale “Dino Buzzati trent’anni dopo” organizzato dal Centre de Recherches Italiennes il 15-16 marzo 2002. Gli interventi tracciano un bilancio degli studi e della critica, che dagli anni Settanta ad oggi, si è concentrata sull’opera dell’autore scomparso.

Indagine sulle primissime prove di giornalista e narratore di Dino Buzzati: secondo la studiosa il primo pezzo di cronaca, pubblicato sul “Corriere della Sera”, risale al 24 luglio 1928, mentre il più antico racconto edito è “Il concerto”, pubblicato il 21 marzo 1932 sul periodico “Il Popolo di Lombardia”.

Si presenta l’atteggiamento di Buzzati per quanto riguarda lo scrivere, il mestiere di scrittore, il ruolo dell’artista nella società contemporanea, attraverso interviste, confessioni, frammenti della sua opera.

Attraverso la lettura dei racconti buzzatiani si riflette sull’influenza esercitata dall’esperienza di cronista, inviato speciale, su quella di scrittore, inventore di storie: i racconti inventati da Buzzati sono radicati nel quotidiano reale o possibile del lettore e sembrano uscire dalla cronaca di un giornale per attirare l’attenzione del lettore sul fatto umano.

Si rintraccia la tematica della mascolinità in Buzzati, particolarmente come si manifesta ne “Il deserto dei Tartari”. Impiegando la critica psicoanalitica e storiografica del fascismo, la relazione offre un’interpretazione del romanzo che sottolinea l’elemento della critica sociale che vi si trova, non limitandosi ad un’allegoria di una crisi “esistenziale”.

L’intervento si propone di prendere in considerazione le forme che assume la retorica della ‘soglia’ nel romanzo buzzatiano, cercando di analizzare le diverse accezioni in cui, in senso retorico, il motivo del limite si traduce in discorso.

Lo studio prende in esame la città, come uno degli spazi più importanti dell’opera di Buzzati: in contrasto con alcuni dei suoi preferiti spazi naturali, la città è uno spazio prevalentemente disforico, nelle metropoli descritte da Buzzati gli esseri umani sono condannati alla solitudine, all’alienazione, alla reificazione.

Lettura rivisitata dalla prospettiva intertestuale dantesca e non solo: si tratta di una evidente demistificazione dell’oltretomba e, implicitamente, dell’inferno che si tramuta sulla terra: nuova mentalità, nuovi vizi, nuove punizioni.

Analisi del mito dell’infanzia buzzatiana che viene spesso illustrato dal’immagine del giardino, specificamente del giardino meraviglioso, quello del paradiso perduto, e in particolare dell’autore nella villa di San Pellegrino, attraverso la lettura dei racconti di “In quel preciso momento”.

Lo studio si propone di dimostrare che la scrittura del deserto in “Il deserto dei Tartari”, “Le Rivage des Syrtes” e “L’exil et le royaume” potrebbe rivelarsi la prospettiva migliore per evidenziare un punto di contatto tra Buzzati, Camus e Gracq. Scrivere il deserto significa, infatti, per i tre narratori, ritrovare e ricreare uno spazio, ma anche un sentimento che, per nascere dal testo, necessita della corrispondenza tra i luoghi della scrittura e la scrittura stessa.

La scrittrice di origine eritrea, attraverso la lettura della corrispondenza di Buzzati per il ‘Corriere della Sera’ e del romanzo “Il deserto dei Tartari”, ripercorrendo la sua personale storia familiare, cerca di ricostruire le vicende storiche e umane del colonialismo italiano e del popolo eritreo.

Si approfondiscono alcuni aspetti dell’opera di Buzzati che, pur già indagati dalla critica, meritano ancora attenzione, soprattutto perchè riallacciano il primo libro “Bàrnabo delle montagne” alle poesie urbane degli anni Sessanta. Divenuto forzatamente urbano avendo vissuto la quasi intera vita a Milano, Buzzati non ha cessato, romanticamente, di guardare ‘al di sopra dei lucernari e delle guglie’ della città, ma sono le montagne ad averlo formato mentalmente al ‘lassù’ e agli ‘oltre’.

Viene analizzato un tema mitico remotissimo recuperato da Dino Buzzati, tema che pare sia stato finora trascurato dalla critica: la leggenda dell’esercito fantasma, la cui comparsa misteriosa coincide con la morte di un personaggio del racconto. Un esame di certi testi tratti da romanzi, novelle o articoli pubblicati tra il 1935 e il 1945 dà adito ad un’ipotesi sull’origine folcloristica di tale tema: le schiere spettrali deriverebbero dal mito arcaico della ‘Caccia selvaggia’ fonte di innumerevoli leggende diffuse soprattutto nel Tirolo.

Il contributo propone una rivisitazione delle frontiere, della loro invalicabilità, nell’opera di Dino Buzzati attraverso lo studio di “Dillon Bay”, uno dei sei racconti della raccolta “Mania” (1997) di Daniele Del Giudice.

La relazione ruota intorno al tema della morte, leit-motiv che si ritrova ben presto sulla strada di Dino Buzzati oltre che nella corrispondenza con Arturo Brambilla. Lo sviluppo di tale tema viene seguito da libro a libro, da romanzo a novella, da novella a pezzo teatrale, da teatro a poema. Si cerca di mostrare la stretta alleanza tra l’opera scritta e l’opera disegnata, l’alchimia del pittore-scrittore con, in filigrana, la morte.

Il contributo mira a comprendere e a definire l’universo delle opere buzzatiane, soprattutto quello multiforme e vario che si presenta nelle novelle. Sotto l’apparenza di storie di banale quotidianità, si rivela, infatti, un universo fatto di profonda inquietudine e di paura, che si propone al lettore con tonalità e registri molto differenti.

Lo scopo dell’intervento è quello di rilevare l’insinuarsi dei temi sociali, politici nelle opere di Buzzati, per analizzarli come segni della diffidenza contemporanea verso le ideologie e la politica, sebbene lo scrittore abbia dichiarato di interessarsi poco al futuro dell’umanità in genere e benché tali questioni contingenti occupino scarso spazio nei suoi scritti.

Partendo dal dato di fatto che un bilancio sull’influenza che Buzzati esercitò sugli scrittori suoi contemporanei e successori non sembra sia mai stato tentato, lo studio vuole suggerire l’interesse di tale problematica e cominciare ad esplorare qualche ‘pista’. Il punto di partenza sarà rappresentato da un articolo di Calvino (“Quel deserto che ho attraversato anch’io” pubblicato ne “La Repubblica” del primo novembre 1980), nel quale viene rievocato l’incontro dello scrittore con l’universo narrativo di Buzzati.

L’opera di Buzzati, specialmente quella verbo-visiva, legata all’esperienza di “Poema a fumetti”, ha fortemente colpito Fellini che con l’autore bellunese condivideva oltre a determinati aspetti della rappresentazione erotica, nella sua visualizzazione del corpo, anche la dimensione misterica del viaggio, come discesa agli inferi metropolitani. L’intervento intende ripercorrere ed evidenziare questi punti di contatto attraverso i mondi possibili come universi creativi fantasmatici dei due artisti.

La relazione offre un nuovo esame delle condizioni di ricezione delle opere di Buzzati sia in Italia che in Francia tra il 1933 e il 1989 ma anche una riflessione più generale sullo statuto del ricercatore e su quello del critico e, ovviamente, sulla loro responsabilità. La relazione studia poi le strategie e tattiche attuabili circa la produzione e la figura di uno scrittore ormai celebre ma poco studiato.