La Rassegna della letteratura italiana | 2013 | N. 2

Si raccolgono in questo volume le relazioni presentate alla Giornata di studi
“La questione della filosofia in Giacomo Leopardi”, tenutasi a Firenze il 20 aprile
2012 presso la “Sala Ferri” del Gabinetto Scientifico Letterario “Gian Pietro Vieusseux”.

L’autore restituisce pienezza alla funzione filosofica del pensiero leopardiana, indagandone il valore. L’ ‘ultrafilosofia’ di Leopardi non è una nuova filosofia che intende sostituirsi alle
precedenti ma un superamento, o meglio un abbandono, della filosofia come tale. Poiché
tutte le verità essenziali sul mondo e sulla vita erano note fin dai tempi di Salomone e di
Omero, Leopardi sostiene, sulle tracce di Pierre Bayle, che il compito del sapere consiste
nel distruggere il sapere, eliminando gli errori creati dal nostro stesso raziocinio. Per questa
via egli giunge ad una visione radicalmente antintellettualistica – assimilabile ad una
forma di saggezza – che svela vari punti di contatto con quella di Goethe.

L’autore indaga attraverso le “Dissertazioni filosofiche”, le “Operette morali” e lo “Zibaldone di Pensieri”, il rapporto che Leopardi intrattenne non solo con Platone – sia il filosofo che il poeta –, ma anche con la tradizione neoplatonica rappresentata da Plotino, Gemisto Pletone e Ficino. Emerge un quadro in cui tanto il platonismo quanto l’antiplatonismo agiscono proficuamente all’elaborazione del pensiero leopardiano.

L’autore s’interroga sul titolo delle “Operette morali” e sull’accezione dell’aggettivo ‘morali’; con tale scopo approfondisce il concetto di filosofia morale nell’opera leopardiana e ne sottolinea l’originalità nell’ambito
della pensiero filosofico occidentale. Prima di Nietzsche, Leopardi mette in discussione l’idea di una morale come scienza oggettiva: per il poeta recanatese la morale non è il frutto di una coscienza razionale, bensì una forza poetica, alimentata dalla passione e dall’entusiasmo.
Da questi presupposti nasce il progetto delle “Operette morali”, nelle quali (in particolare nel “Dialogo di Timandro e di Eleandro”) si ribadisce che i libri morali capaci di giovare sono quelli poetici.

Partendo dal Dialogo della Moda e della Morte, edito nel 1827 nelle “Operette morali”, e
dall’esame delle riflessioni leopardiane sul binomio moda-morte, si ripercorre la storia del
concetto di moda e del suo uso dal XIV al XIX secolo, a partire dalla “Canzone contro alle
nuove foggie” di Franco Sacchetti fino al pensiero poco conosciuto espresso da Vincenzo
Gioberti nella “Protologia”. L’autrice si sofferma sulla definizione offerta nel 1691 dal “Vocabolario” degli Accademici della Crusca: “e si dice propriamente dell’usanza che corre”. Il riferimento al verbo correre che anche Leopardi usa per richiamare il movimento perenne della moda e la sua fuggevolezza fa supporre che la definizione linguistica possa aver suggerito al poeta l’immagine per il suo dialogo.

L’autore esamina la posizione ideologica di Eleandro e Porfirio – protagonisti di due testi composti in anni diversi – riguardo al tema dell’amore in senso filosofico e antropologico. Eleandro rappresenta la figura di un uomo saggio e distaccato dal mondo, che esclude l’amore dalla sua vita per averne troppo sofferto in passato; Porfirio, invece, si eleva sopra questa sofferenza per concepire un nuovo amore inteso come solidarietà per sopportare il peso della vita e per confortare gli altri. Quest’ultimo tipo di amore si avvicina al concetto laico e illuminista di ‘social catena’ che Leopardi esprimerà nella Ginestra.

Il saggio si propone di restituire un’immagine più mossa e problematica del ‘materialismo’ leopardiano, evidenziando nell’opera dello scrittore la compresenza di due diverse concezioni di Natura, che sembrano anticipare alcuni aspetti del pensiero di Ravaisson e di Bergson. Da un lato, descrivendo la natura come un unico ‘sistema di assuefazione’, Leopardi mostra di considerare materia e pensiero come due gradi opposti della ‘conformabilità’; dall’altro, adottando l’ipotesi della ‘materia pensante’, si sforza di mettere esplicitamente in discussione la stessa distinzione tra due sostanze.

Questo saggio intende individuare le idee estetiche espresse da Leopardi tra il 1817 e il 1832 nello “Zibaldone”. Mentre i suoi predecessori e contemporanei si erano concentrati principalmente su un sistema di belle arti basato sul principio di imitazione, Leopardi non solo abbandona l’idea di creare un sistema di Belle arti costruito su un impianto tradizionale, ma distrugge il suo fondamento sostituendo al concetto di imitazione quello di espressione.

Il saggio indaga il suicidio in Guido Morselli come riflessione teologico-filosofica. La
ricostruzione di un percorso che parte dai concetti di ‘vita come condanna a morte’, ‘amor
proprio’, ‘rifiuto della vita’ e ‘libero arbitrio’ si concentra sull’analisi degli
appunti presenti nel diario, rilevando il riverbero di tali considerazioni su alcuni scritti ad essi coevi, come il romanzo “Uomini e amori” e il saggio “Fede e critica”. A completare l’analisi è il confronto diretto con letture finora trascurate che informano le riflessioni di Morselli, in special modo lo “Zibaldone” di Giacomo Leopardi e il “Dialogo dei morti” di Giuseppe Rensi, insieme a una maggiore attenzione per il “Libro di Giobbe” e per le “Ecclesiaste”.

L’intervento si propone di analizzare la recensione che Walter Benjamin dedicò,
nel 1928, ai “Pensieri” di Giacomo Leopardi, ricontestualizzando l’interesse di Benjamin per
Leopardi in un confronto con il leopardismo italiano, fra De Sanctis, Croce e Gentile.
Si mette in risalto il ruolo importante, per il Benjamin lettore del pensiero leopardiano,
del Leopardi di Karl Vossler, e si fa emergere la profonda differenza fra il Leopardi ‘italiano’
e il Leopardi di Benjamin: un Leopardi finalmente liberato dall’etichetta di ‘malato’, e reso capace di offrirsi come esempio filosofico.