La Rassegna della letteratura italiana | 2009 | N. 2

L’intervento di Muresu sul X canto dell'”Inferno” dantesco parte dall’approfondimento del peccato di infidelitas di cui è messa in evidenza la differenza con quello di haeresis e dalla diversità di atteggiamento nei confronti di Epicuro che Dante palesa nei suoi vari scritti. In particolar modo lo studioso evidenzia come l’autore della Divina Commedia abbia sconfessato Epicuro per aver materialisticamente ritenuto irrimediabile il disfacimento del corpo dopo la morte. Agli ‘infideles’ rinchiusi nel sepolcro cui Dante si avvicina è imputato non solo di non aver creduto all’anima immortale ma di aver ostentatamente ignorato la relatà di cui la Resurrezione di Cristo era stata modello ed emblema. A tal proposito significativo sarebbe il risalto dato al tema corporale in tutto il canto. Muresu passa quindi a considerare la raffigurazione narrativa del personaggio di Farinata, il suo complessivo incontro con il pellegrino e la paradigmatica funzione che la sua figura è chiamata a incarnare così come Cavalcante, l’altro epicureo con cui Dante, sia pur fugacemente, conversa, ma che nella globale economia dell’azione scenica non puo’ dirsi semplice comprimario.

Ghidetti dedica il suo saggio alla fervida stagione letteraria della nuova Italia del decennio 1830-1840, mettendo a confronto due romanzi: “Cuore” di Edmondo De Amicis e “Testa. Libro per giovinetti” di Paolo Mantegazza rappresentanti di quella produzione di confine tra letteratura, pedagogia e sociologia e caratteristica dell’ età umbertina, pubblicati presso lo stesso editore e con la medesima veste grafica. L’autore scorge come unico significativo argomento di convergenza tra i due testi l’eccitata retorica nazionalista e la degenerazione degli ideali risorgimentali in mito nazionalista. In nome del progetto di ‘fare’ gli italiani da una parte il ‘cuore’ di De Amicis, dall’altra la ‘testa’ di Mantegazza.

Il saggio percorre le fasi della strategia antidannunziana di Marinetti ed il ruolo che in essa ha “La ville charnelle”, ripresa parodica del sensualismo dannunziano. Ispirandosi alla parabola di “Alcyone” che si dispiega tra cielo, terra e mare e invertendone il percorso, Marinetti descrive un viaggio in una fantastica natura orientale in cui appare come un miraggio una città dalle linee sensuali. La scelta del titolo propone, a immagine del “Piacere” di D’Annunzio, una nuova metafora del desiderio della società di trovare una convergenza tra piacere fisico e piacere spirituale. Analizzando alcune parti del testo marinettiano, Cescutti ne evidenzia gli elementi che sviluppano la sua polemica contro i concetti simbolisti e decadenti di D’Annunzio. Dopo aver esasperato l’estetica simbolica e decadente, Marinetti ne rovescia la gerarchia dei valori che le sono intrinsechi, superandola. L’autore sovverte la preferenza data all’idea sulla materia opponendo all’idea dannunziana di spiritualizzazione della carne il concetto di materializzazione ideale affidata all’immagine artificiale della ‘città carnale’.

Veronese evidenzia come il parallelismo tra Byron e Leopardi presente nella critica dell’800 sia dovuto soprattutto all’appartenenza dei due autori ad un archetipo spirituale le cui caratteristiche principali sono la malinconia e il vigore intellettuale. La fama di Byron, inoltre, diventava anche uno strumento per presentare Leopardi e valorizzarlo da un punto di vista letterario. Pur apparendo agli occhi del pubblico risorgimentale figure provocatorie, lo stretto legame tra religione e politica all’interno della cultura del Risorgimento aveva consentito di sfruttare le circostanze biografiche per giustificare i due autori e canonizzarli ai fini di un discorso propagandistico sia in senso strettamente politico che in senso genericamente culturale. Oltre a questi motivi Veronese ne fornisce uno antropologico: la visibile diversità dei due poeti avrebbe consentito al pubblico risorgimentale di proiettare su di loro le proprie ansie di trasgressione dopo averle convertite in forme culturalmente accettabili esorcizzando le proprie paure di un fallimento politico e ideologico.

In attesa di voluminose edizioni critiche che riportino alla luce le opere originali di Giuseppe Giusti, Benucci ripropone e analizza tre scritti dell’ autore: “Una chiaccherata ai lettori di Dante” edito nel “Giornale del commercio” del 17 gennaio 1838; “Cenni semiseri intorno al nostro bastardume poetico”, pubblicato sullo stesso giornale il 7 febbraio 1838 e “A quelli che verseggiano la religione” edito postumo ma probabilmente coevo ai primi due.

Analizzando il rapporto tra Papini e Leopardi Bruni parla di fraternità in parte inconfessata che verrebbe in luce soprattutto negli scritti papiniani più esoterici e segreti come i carteggi intrattenuti con Soffici e Prezzolini e il “Rapporto sugli uomini” di cui in appendice son proprosti due capitoli inediti. Dei due capitoli, conservati nell'”Archivio Papini” presso la Fondazione Primo Conti Onlus di Fiesole, Bruni presenta un’edizione vicina il più possibile alle ultime volontà dell’autore, rispettando scrupolosamente tutte le particolarità grafiche papiniane. Il primo, con un titolo indicato dall’autore stesso e in apertura segnato con il numero 11, è un manoscritto composto da 13 cartelle autografe datato il 15 ottobre 1917 e inserito in una cartellina di cartoncino giallo che reca l’intitolazione “Natura”. Il secondo, senza titolo, è segnato in apertura con il numero 12, riporta in fondo la datazione 1 luglio 1918, è composto da 5 cartelle autografe e inserito in una cartella di cartoncino bianco intitolata “Vegetali”.