Italica | 2009 | N. 2

Nell’ambito nel ciclo della “Tavola rotonda”, il tredicesimo secolo registra una svolta senza ritorno: l’inserimento di Dinadamo, un nuovo personaggio nel novero dei cavalieri, “philosophe du bonheur, […] à la recherche du sens du monde” (Vinaver, p. 173). Tardivo, ma alquanto duraturo, l’inserimento della sua figura di anti-Tristano, inaccessibile alle lusinghe della passione, rapito dal vortice dell’astratto. E abbastanza centrale da comportare l’intera riorganizzazione della vicenda.

Il “De Vulgari Eloquentia” – come è noto – la principale testimonianza di semiotica e linguistica dantesca, attinge, a sua volta, a fonti particolarmente autorevoli, quali Agostino e l’Aristotele del “De interpretatione”, che presuppone le riflessioni gnoseologiche e psicologiche, consegnate ad altri testi, tra cui spicca la centralità del “De anima”. Fonti classiche, sulle quali si era per secoli affaticato il dibattito filosofico, tra nominalismo e realismo.

La tragedia dell’Olocausto, come come emerge in tutta la sua drammatica evidenza dalla testimonianza di primo Levi, è trauma mai del tutto elaborato dalla coscienza dell’Occidente contemporaneo. Un adattamento avvenuto soltanto per ‘approssimazione’, nonostante le nopn poche rivisitazione in sede critica e cinematografica. Un esubero di tensione che, tuttora, non riesce a fare meno di filtri precauzionali per essere raccontato.

Costante tra le metafore poetiche quella del viaggio, ampiamente accolta anche nella produzione in versi di Giorgio Caproni. L’accezione in cui viene qui elaborata non rientra nei canoni di ‘moderno’ e ‘postmoderno’; al contrario sembra recuperare in pieno lo spessore fatalistico della concezione classica. Non viaggio elettivo, liberamente scelto dal soggetto per esigenze dell’io narrante, ma piuttosto destino di ineludibile alienazione.

Una quanto mai pregnante citazione dallo “Zibaldone” leopardiano introduce il saggio, che intende estendere al cinema – un certo cinema d’autore – i parametri dell”estica del doppio’, teorizzata e a lungo sperimentata dal Recanatese. Autori-registi quali Pier Paolo Pasolini pervengono ad amplificare le potenzialità della macchina da presa fino a creare atmosfere percepibili su più piani, ricongiungendo/separando l’orizzonte della realtà con/da quello della memoria.

Le pellicole di Francesco Rosi e di Pier Paolo Pasolini proiettano sul grande schermo immagini dal ‘doppio commento’ (p. 283), in cui converge, accanto alla verosimiglianza, la forza dell’inconscio e l’anamorfosi dell’onirico, adeguatamente sublimata. La profondità della visione attraversa la coscienza dello spettatore, mediante il filtro di una prospettiva pluridimensionale che lambisce contemporaneamente, con messaggi paralleli, tutte le stagioni dell’io.

Affresco della vita di provincia, delle inquietudidini della generazione seguita al Sessantotto, “Radiofreccia” di Ligabue è prodotto commerciale di largo consumo e, al tempo stesso, eloquente testimonianza delle profonde trasformazioni di una società in crisi. Contraddizioni ideologiche e politiche trovano riscontro nel disagio di tanti destini individuali, che proiettano sullo schermo luci ed ombre di esistenze irrisolte.

Viene qui esaminata la fortuna di Leopardi nei nove decenni successivi alla sua scomparsa (1837) presso il pubblico inglese. Una platea difficile, dove a lungo l’opera del Recanatese stenta a penetrare. Durante l’epoca vittoriana, solo sporadici interventi e traduzioni frammentarie. Stile e spessore di versi e prosa trovano il dovuto apprezzamento a Novecento inoltrato.