Giornale storico della letteratura italiana | 2011 | N. 621

Ripercorrendo gli snodi cruciali della storia della nascita e dell’affermazione della lingua e della letteratura italiana, Marti fa presente la necessità di integrare lo studio della stessa tenendo conto della triplice sincronica veste linguistica che ha assunto lungo lo svolgersi dei secoli: in italiano, in latino e in dialetto.

Incursione nell’officina poetica manzoniana finalizzata a mettere in luce tutti gli aspetti della meditazione politica dello scrittore milanese: dal giacobinismo giovanile del “Trionfo della libertà”, all’esaltazione di un modello di italianità indipendente dell’incompiuto poemetto sulla storia di Firenze, alle tesi unitariste di “Aprile 1814”, dell’incompiuto “Proclama di Rimini” e di “Marzo 1821”, fino ad arrivare alla celebrazione dell’azione politica dei Savoia della saggistica degli anni Settanta dell’Ottocento.

Esame delle affinità e delle differenze intercorrenti tra il “Novelliere” quattrocentesco attribuito a Gentile Sermini e il “Decameron” di Boccaccio. Dell’anonima raccolta di novelle viene altresì rivelata la modernità, anche in relazione al coevo contesto culturale e letterario italiano.

L’articolo propone una disamina delle prescrizioni relative all’arte della conversazione di un gentiluomo presenti nell’ampia trattatistica cinquecentesca sull’argomento (da Agostino Nifo e Giovanni Della Casa a Stefano Guazzo e Baldassarre Castiglione).

Si analizza il trattatello cinquecentesco “L’arte del ricordare” di Giovan Battista Della Porta, edito per la prima volta nel 1566, nei suoi rapporti con la medicina, il teatro e le arti figurative e nella sua profonda e quasi ostinata attenzione alla “dimensione del corpo”.

L’A. fornisce notizia e trascrizione di una lettera giovanile inedita di Italo Svevo (datata 20 marzo 1886 e indirizzata alla direzione della rivista fiorentina “Nuova Antologia”), attualmente conservata presso la Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze.

Nelle sue tre ‘annotazioni montaliane’ l’A. suggerisce una possibile interpretazione di qualche oscuro passo delle liriche del poeta genovese raccolte in “Ossi di seppia” e nella “Bufera”. Nella prima in particolare l’A. si occupa del significato della parola ‘banchine’, presente nella terza strofa della lirica che conclude il ciclo degli ‘ossi’; nella seconda, invece, la sua attenzione si appunta sull’uso del segno grafico del trattino, che correttamente interpretato consentirebbe di risolvere qualche problema testuale ed esegetico relativo alle liriche del primo libro montaliano; nella terza ed ultima, invece, è indagato il significato dell’espressione “Il Dio che colora/di fuoco i gigli del fosso”, verso della strofa centrale della “Ballata scritta in una clinica”.