Giornale storico della letteratura italiana | 2004 | N. 595

Attraverso il riferimento specifico all’opera multiforme di letterati e uomini di cultura come Giuseppe Maria Buondelmonti, Anton Filippo Adami e Anton Maria Vannucchi l’A. mette in luce alcuni tratti distintivi della vivace cultura letteraria toscana settecentesca alla vigilia dell’età delle riforme. Secondo il bilancio conclusivo tracciato dall’A. la cultura letteraria toscana dell’epoca si collocherebbe tutta in una vistosa “sproporzione tra propositi teorici ambiziosi e realizzazioni pratiche mediocri” (p. 372).

Scopo del lungo saggio dedicato all’ “Italia liberata dai Goti” è quello di “offrire un contributo alla comprensione della ‘macchina’ trissiniana” attraverso un esame più dettagliato del V libro dell’opera. “Nelle intenzioni del vicentino – osserva l’A. – la riforma del romanzo cavalleresco, attraverso il recupero affatto esclusivo della classicità, più che una questione di modelli narrativi significa strenua subordinazione del piacere letterario a una finalità didascalica: l’epica trissiniana sarà in altre parole la fondazione di una paradigma dell’eroico sia sul piano letterario che su quello etico” (p. 374). A corollario della sua indagine l’A. pone “un sondaggio necessariamente parziale […] sulla fortuna imprevista di certi moduli dell'”Italia”, della sopravvivenza di alcuni simboli sapientemente ripresi e potenziati dal vicentino, di alcune specifiche aree semantiche: dalla ‘Frau Welt’, alla sirena, dalla femmina balba ad Areta” (p. 409).

L’A. del saggio ragguaglia sull’attività letteraria dell’Accademia modenese nella seconda metà del XV secolo riferendosi più specificamente ad una lezione di argomento poetico tenuta nell’ambito di essa da uno dei suoi membri più autorevoli: Lodovico Castelvetro. La lezione modenese, discussa da Castelvetro presumibilmente tra il 1548 ed il 1551, fu raccolta in volume nel 1551 dall’editore bolognese Anselmo Giaccarello con il titolo “Ragionamenti sopra alcune osservazioni della lingua volgare”. Essa documenta “una fase ancora iniziale del travaglio critico di Castelvetro; fase in cui il modello imperante di Petrarca non è messo in discussione, come del resto non lo è il magistero linguistico di Pietro Bembo” (p. 421).

Servendosi di esemplificazioni attinenti principalmente alle favole pastorali ferraresi pre-“Aminta” ed al capolavoro del Guarini, l’A. dimostra come contrariamente alla tradizione petrarchesca, che conferisce “valore assoluto alla condizione di felice statico doloroso prigioniero che il poeta amante si è edificato per la propria gloria martiriale nutrita di meravigliose contraddizioni e singolarità radicali”, la favola pastorale restituisca “ad Amore il suo ruolo di anima del mondo e alle coppie il loro obbligo di amarsi vicendevolmente” (p. 423). Laddove, in breve, la “musa della poesia cortese-petrarchista” imponeva l’obbligatorietà dell’amore non corrisposto rendendo la reciprocità “un ‘impossibile’, proprio nel senso di un ‘adynaton'” (p. 425), la favola pastorale insegnava all’opposto “che la donna non deve rifiutare l’amore e l’uomo non deve seppellirsi nella prospettiva dell’amore infelice” (p. 424).

Nel saggio l’A. ipotizza come l’influenza di Franco Sacchetti, “se di influenza si può parlare”, si sia esercitata per breve tempo su Manzoni, “in una fase abbastanza precisamente delimitabile della sua opera”, e si sia venuta “ben presto attenuando” al pari delle influenze di altri autori, anche le più forti come quella di Walter Scott (p. 441). Nondimeno secondo l’A. la lettura del “Trecentonovelle” avrebbe lasciato “tracce riconoscibili” soprattutto nella prima stesura dei “Promessi Sposi”, come dimostrano sia reminiscenze lessicali che elementi testuali più generali (analogie di situazione narrativa o aspetti della concezione religiosa) riconducibili per l’appunto all’opera di Sacchetti.