Giornale storico della letteratura italiana | 2001 | N. 581

In pagine pacate d’informazione storica sono illustrati la condizione dell’aristocrazia e della borghesia nell’Italia moderna, il ruolo dei contadini e la questione meridionale. Con la riconsiderazione dell’eredità del realismo manzoniano, si approda quindi ad una lettura delle scelte stilistiche e delle prospettive politiche di tre autori fondamentali tra Ottocento e Novecento: di Giovanni Verga si medita sull’impassibilità, spesso interpretabile come scetticismo, di Federico De Roberto sul realismo, di Luigi Pirandello, più rapidamente, sull’ambigua critica al socialismo.

E’ analizzata la produzione letteraria di Matteo Caldo, sacerdote messinese – estimatore sincero della “Divina commedia” – che sul finire del XV secolo compose un noto poemetto in sei libri (“Vita Christi Salvatoris eiusque Matris Sanctissimae”). Sottolineando l’originalità della sestina caldiana (con rimalmezzo al quinto verso e con variabilità di cesura), si confrontano quei versi con il modello dantesco, poi – ed è il contributo più originale fornito dal saggio – con quello petrarchesco.

E’ il commento ad un’interessante lettera di Giovanni Mauro d’Arcano, segretario del cardinale Alessandro Cesarini, scritta a Gandolfo Porrino, accademico romano della Virtù e segretario di Giulia Gonzaga, e dedicata ad un convito di letterati del dicembre 1531. Utile risulta l’identikit dei partecipanti (anfitrione è il letterato Giovan Antonio Muscettola, aristocratico partenopeo), sopravvissuti al sacco di Roma, sovente imitatori di Francesco Berni.

Analisi della letteratura critica relativa alla produzione di Carlo Gozzi, nobile fondatore (col fratello) dell’Accademia settecentesca dei Granelleschi, ed in specifico proposta – su suggerimento di Franco Fido – di una riconsiderazione delle sue novelle. S’indaga sulle tecniche impiegate dall’autore veneziano: sul registro “basso” e sulla presenza dell’elemento fisiologico (costante in quella produzione), sui riferimenti politici e storici, sull’ironia che tante volte si fa sottile malinconia.

Si dimostra che i luoghi del “De officiis” di Cicerone – posti tradizionalmente nell’apparato delle note dagli editori del “Convivio” di Dante nelle prime tre sezioni dell’opera – o sono generici rimandi ad argomenti topici (per i quali si possono suggerire altre, sovente più prossime, fonti) o, quando anche siano ciceroniani in origine, sono mediati dal “Tresor” di Brunetto Latini.

Ci s’interroga sulla collocazione cronologica nell’iter creativo leopardiano di due canzoni sepolcrali (la XXX, “Sopra un basso rilievo”, e la XXXI, “Sopra un ritratto”, dei “Canti”). Sono o non sono contemporanee? Confermando ciò che ha sostenuto in precedenza, l’autore di queste pagine critiche, pur nell’attenta disamina d’alcune ipotesi di Luigi Blasucci, propende per la seconda possibilità. Più recente è la stesura del componimento “Sopra un ritratto”.

Breve analisi dei legami tra un noto epigramma di Vittorio Alfieri, del 31 luglio 1783, ed un suo probabile modello, una celebre canzone riportata da Giovanni Lami in una recensione stampata nel n. 51 delle “Novelle letterarie” di Firenze (22 dicewnbre 1741).